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Il PIL fa la felicità?

mercoledì 11 febbraio 2015

Stress da lavoro: il PIL non fa la felicità
Siamo schiavi dello stress da lavoro
Una domenica pomeriggio stavo girovagando su internet e stavo leggendo sui siti dei quotidiani alcune notizie sullo stato dell'economia italiana.
È abitudine, da parte degli emeriti economisti e da chi ne riporta le fantasticherie (che ovviamente ci hanno portato alla crisi economica che ben conosciamo) di misurare il benessere di uno Stato basandosi sul suo valore del PIL, ovvero la somma di tutte le merci e i servizi prodotti in un anno in quel determinato Stato.
Quindi l'assioma che leggiamo e sentiamo come un mantra è il seguente: più produciamo (e, quindi, più lavoriamo), meglio staremo economicamente e quindi saremo più felici.

Ma le cose stanno davvero così?


Lavora, schiavo del PIL!

È indubbio che se una persona possiede un vasto patrimonio può permettersi certi agi che altri individui possono solamente sognarsi.
Tuttavia, ho sinceramente molti dubbi sul fatto che la maggior parte di voi sia felice di lavorare sempre di più, per produrre sempre più merci e servizi in modo tale da alzare il Prodotto Interno Lordo dell'Italia.
Tralasciamo il fatto che per produrre di più è necessaria una domanda di quei determinati beni o di quei determinati servizi.
Ma anche se ci fosse quella domanda in più, mi chiedo: fin quanto possiamo spingerci?

Se quest'anno produciamo un milione di automobili e le vendiamo tutte, l'anno prossimo ne dovremo produrre e vendere almeno un milione più una perchè ci sia una crescita, quindi un aumento del PIL e infine un aumento del benessere. E l'anno successivo ne dovremo produrre e vendere ancora di più, e così via, alla ricerca dell'utopia della crescita infinita.

Ma in un mondo che per definizione è finito, è possibile tutto ciò? Voglio dire, se in Italia ci sono circa 60 milioni di abitanti, potremo mai vendere sempre più automobili per far sì che ci sia sempre una crescita in questo settore?

La risposta ve la potete dare da soli, e ovviamente è "no" e questo discorso può essere generalizzato a qualsiasi altro settore economico, dall'industria degli elettrodomestici a quella della ceramica, per finire all'edilizia (non vorremo finire a comprare una casa diversa ogni 6 mesi per aumentare il PIL, vero?).


I demoni del progresso hanno nomi ben precisi

Ecco che fanno la loro comparsa due delle più grandi truffe che, se non sono state inventate, per lo meno si sono diffuse su larga scala nel XX secolo.

La prima porta il nome di obsolescenza programmata. È quell'imbroglio secondo il quale le aziende calcolano già dal principio la durata del prodotto che commerciamo per spingere il consumatore a comprarne un altro dopo pochi anni (se no, che consumatore sarebbe?). Ovviamente l'obsolescenza può essere fisica, ovvero il prodotto si danneggia dopo pochi anni e non è più utilizzabile, oppure può essere "virtuale", vale a dire che il prodotto in sè e per sè è ancora funzionante, ma non si può fare a meno di cambiarlo con un altro più nuovo.

Ma qual è il modo in cui un prodotto perfettamente funzionante viene fatto sostituire (forzatamente) con un altro modello più recente?

È qui che entra in gioco l'altro grande inganno, in parte direttamente collegato all'obsolescenza, e questo inganno si chiama marketing: esso fa sì che in ognuno di noi, bombardato dalla pubblicità, venga deliberatamente instillato il bisogno di quel prodotto o di quel servizio, in mancanza dei quali potremmo comunque vivere senza problemi. C'è gente che spende centinaia di euro ogni anno per avere l'ultimo smartphone uscito sul mercato (ed ecco spiegata la continuità con l'obsolesenza programmata), ma c'è gente che acquista le acque in bottiglia nonostante dal rubinetto esca della freschissima acqua potabile a un costo sensibilmente inferiore (ahimè, in alcune zone d'Italia l'acqua non è potabile, ma tranquilli, non sto parlando di voi).

Altri esempi sono sotto gli occhi di tutti, dalle sigarette al caffè, dalla televisione ultrapiatta allo spremiagrumi elettrico che vi permetterà di risparmiarvi 30 secondi di fatica (?) in cambio di molti più soldi per acquistarlo e per farlo funzionare (tanto, l'elettricità a me la forniscono gratis, a voi no?).

Tutti prodotti di cui potremmo fare benissimo a meno, ma che vuoi per la pubblicità, vuoi per le pressioni sociali che ci circondano, acquistiamo e usiamo quotidianamente senza chiederci se necessitiamo davvero di quegli oggetti.

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Per concludere

Noi dobbiamo lavorare tutto il giorno, per poter guadagnare dei soldi che spenderemo per comprare quei beni e quei servizi che non sono essenziali per la nostra sopravvivenza, ma di cui ci viene in qualche modo imposta la necessità, volenti o nolenti.

Siamo schiavi del lavoro, usiamo gli anni più belli della nostra vita per svegliarci, prendere la macchina, raggiungere il posto di lavoro, rimanerci per otto, nove, dieci ore, riprendere l'auto e tornare a casa stanchi morti, giusto il tempo per cenare e addormentarci guardando la TV.

Siamo sicuri che così facendo il PIL misuri la nostra felicità? Felicità non dovrebbe significare avere più tempo libero da dedicare a noi stessi e agli altri, magari condividendo i nostri hobby e le nostre passioni, indipendentemente da quanto guadagniamo e spendiamo?

Non dovrebbe significare lavorare il giusto per permettersi una degna sopravvivenza, senza circondarci di inutili oggetti, per avere i quali dobbiamo lavorare il doppio del necessario?

Picture: by William Brawley, used under CC BY


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